30 agosto 2010


Seguimi su Facebook

Andate e ritorni... on line

La prima regola di un buon blog è: aggiorna il tuo blog!
Ma io aggiungo (naturalmente per tirar l'acqua al mio mulino): a meno che tu non abbia un ottimo motivo per non farlo. Il mio motivo era una vacanza!
Qualche giorno per cambiare aria, per cambiare faccia, per cambiare colore (senza riuscirvi) per cambiare vista e cose viste. Uno zaino in spalla, un po' di strada sotto i piedi, compagni di viaggio da sostituire ai colleghi lasciati (e poi ritrovati) in ufficio.
Un'occasione per aver qualcosa di nuovo da raccontare.
Così questa storia comincia dopo aver fatto i bagagli: “giuro che parto solo con 4 maglie, 2 paia di pantaloni e un solo paio di scarpe!!” E lo zaino da portare in spalla finì per pesare poco più di 10 kg!! La storia comincia, dicevamo, dovo aver chiuso il gas, dopo aver rinvasato tutte le piante con del terriccio altamente tecnologico capace di autodrenarsi per quasi 30 giorni (pur sapendo di mancare molto meno), dopo aver chiuso l'acqua, dopo aver abbassato tutte le tapparelle, dopo aver serrato le finestre e dopo aver dato una doppia mandata alla porta di casa.
La storia e il vero viaggio comincia a Tangeri, in Marocco quando tutti i protagonisti/viaggiatori si incontrano per formare un grande, splendido gruppo così composto: me, ovvero l'Hobbit pallido; la Traduttrice; Yussef Citron; la “Cecatella” da un occhio chiuso; il Marocchino svedese che non è alemano; la Rubia.

Tangeri ci accoglie con il benvenuto di uno pseudo famoso anziano maratoneta che ci mette di buon umore, ci ristora con il primo tè alla menta e ci schiaffeggia con i bambini che sniffano colla.
Ma Tangeri è solo il punto d'arrivo, la città da cui prenderemo un treno per recarci nella straordinaria Marrakech e le cuccette dei treni notturni non hanno nulla per cui rimpiangere i treni delle fs italiane.

A Marrakech il sole splende alto sulla piazza Jema El-Fna, dichiarata Patrimonio Orale e Immateriale dell'Umanità e bisogna aspettare la sera per capire appieno proprio il valore orale e immateriale che L'Unesco ha attribuito a questo posto. La moltitudine di persone che attraversano la piazza si ferma nella moltitudine di capannelli che animano lo spazio: veri e propri “ristoranti” con dell'ottimo cibo mangiato su panche e tavoli di legno pieni di gente, che si dipanano da carretti dove nel fumo si arrostisce di tutto, dalla carne al pesce; incantatori di serpenti e scimmie ammaestrate che si alternano a ballerini e narratori chissà di quale storie; musicanti e vecchi maghi/illusionisti dai trucchi semplici con mille rughe e pochissimi denti; venditori di ogni sorta e di ogni merce; donne armate di siringhe per i tatuaggi all'henne; carretti di spremitori di arance e di aranciate bevute per poche dirham. Golfisti improvvisati a far entrar palline che corrono su piccoli tappeti stesi all'occorenza; pescatori armati di canne senz'ami ma con degli anelli per centrare bottiglie di coca cola.
Questo, ma non solo questo. In una piazza che non è solo un luogo ma un mondo fatto di persone diverse, culture diverse, occhi diversi pronti a guardare in maniera diversa. Un luogo che sembra fermo nel tempo e che davvero non sembra poi così diverso da vecchie foto che lo ritraggono anni e anni fa e che per questo cambia davvero più di qualsiasi altro, perchè a cambiare sono le gambe che l'attraversano, le voci che lo raccontano, gli incontri che si vi nascono ogni sera, le trattative per un caftano venduto ad un turista, ogni sera diverso.

A Meknes la medina cambia: le sue stradine sono più strette, più fitte e il sole vi entra meno. E i negozi traboccanti di caftani e di babbucce di ogni colore si alternano ai negozietti stracolmi di scarpe da ginnastica e magliette che ricordano griffe famose a noi occidentali. Poi ci sono le botteghe di sarti che a vestire e investire (sui) turisti non ci pensano proprio. La sensazione è che Meknes sia meno abituata a vivere di turisti e più abituata a vivere di sé stessa e a noi viene lasciato il tempo per guardarci intorno senza per forza dover schivare gli attacchi di contrattazione per ogni cosa sui cui poggiamo gli occhi. A Meknes ci sentiamo quasi parte della medina e facciamo i conti con la carenza d'acqua corrente, che è il problema che nei mesi estivi affligge questa città.

Fes, invece, è la città che non mi aspettavo. Enorme, guardandola da un belvedere da cui piovono pietre su ignari marocchini svedesi che non sono alemani. Un brulicar di luci accese dopo il tramonto e torri di minareti da cui si diffondono preghiere coraniche.
Fes è una città che ama i turisti. Li incanta, li stordisce, li spinge a spendere, li sfama in ristoranti dal cibo (sempre) succulento e delizioso. Ma Fes è una città che odia i turisti, per quella ricchezza, che non sempre è ricchezza, ma che li porta lì solo per le vacanze, con quei visi rilassati e con quegli occhi curiosi che talvolta si posano su una povertà estrema che non sono capaci di vedere. Allora Fes diventa una città difficile, la più difficile per noi in questo viaggio.
Fes è la città delle sirene suonate al tramonto per sancire la fine della giornata di Ramadan, cominciato proprio il giorno del nostro arrivo, ed è la città degli strombazzamenti nella medina e nelle strade della parte nuova che fanno da sveglia alla popolazione musulmana alle 3 del mattino per ricordare a tutti di mangiare e bere prima dell'arrivo di un nuovo giorno.
Abbiamo provato a capirlo il Ramadan e non so se ci siamo riusciti. Il senso di privazione che rende felici i fedeli che con pazienza e con caparbietà rispettano i dettami di una religione che poco conosciamo, mentre finchè il sole splende (e scalda tanto) non si mangia e non si beve.
C'abbiamo provato anche noi, a nostro modo a fare un po' di Ramadan e non sempre ci siamo riusciti.

Chefchaouen è un cumulo di case bianco/celesti appoggiate sul fianco di una montagna. Un'oasi adagiata sulla roccia con stradine che salgono e scendono attraversando il paesino, con la piazza dove le sedie affacciano su un abete che sembra il monumento più importante, con le cascate che brulicano di bambini e ragazzetti che hanno trovato il modo anche di arrangiare una piattaforma per i tuffi, con il tramonto da guardare seduti sul parapetto della moschea che è in alto alla fine di una strada che corre verso una cima facilmente accessibile e con il sole davanti che scompare dietro le case. Un posto che ha meno fretta di altri, dove anche il caldo smette di far dannare.
Un posto dove scegliamo di rilassarci con metodi classici di questa cultura e che vanno oltre gli angoli dei viottoli ai quali ragazzi di tutte le età ti offrono del fumo.
Ci dividiamo: uomini e donne come ai balli delle medie e andiamo in un hammam. Bagni pubblici dove le donne socializzano, oltre a farsi belle e dove ognuna impara una cosa che la nostra società sembra sempre più dimenticare: prendersi cura dell'altro. Restare nudi dinanzi ad altre persone in maniera del tutto naturale e lasciare che gli altri si occupino delle nostre schiene, dei nostri capelli, come facevano le nostre mamme come quando eravamo piccole e come forse toccherà fare a noi quando loro saranno anziane. Però c'è un tempo di mezzo in cui dimentichiamo una certa forma di condivisione possibile nei gesti che da noi diventano privati, così in una società sempre meno vestita (la nostra) troviamo quasi difficile, private dei vestiti, affidarci a mani disposte a prendersi cura di noi non per massaggiarci ma per lavarci, mentre loro, le donne, abituate a lasciar intravedere poco del loro corpo restano stranite dinanzi al nostro imbarazzo. La scoperta è ritrovarsi con i gesti e con i sorrisi che vanno al di là delle cose che non riusciamo a dirci a causa di una lingua che non riusciamo a parlare.

Il punto di partenza è anche punto d'arrivo, come se questo viaggio fosse un cerchio da dover chiudere. Per questo torniamo a Tangeri che adesso ci sembra più brutta, più sporca, e più occidentale di quando questo viaggio era cominciato.

Il resto è difficile raccontarlo: i volti incrociati, le parole scambiate con ragazzi marocchini sulle terrazze dei bar dove ci sono poche donne, la gentilezza di persone che ci hanno fatto da guida, da cuoche, da amici, da ospiti aiutandoci a farci sentire dei viaggiatori più che dei turisti. Le risa per un gruppo che mentre era in viaggio affrontava piccole grandi sfortune e disavventure. Il caldo sofferto in un viaggio durato quasi 6 ore nel vagone di un treno di prima classe senza aria condizionata. Le contrattazioni per ogni acquisto da fare e la consapevolezza che in un modo o nell'altro eravamo sempre riuscita a farci “fregare”. I gatti in ogni angolo, in ogni città, in ogni strada percorsa. Gli incontri che non ti aspetti e la possibilità di camminare sui chiodi guidata da un fachiro de Roma che insegna l'italiano ai marocchini parlando una lingua che di italiano ha ben poco. Le storie di chi questo Paese l'ha scelto anche provenendo da altri luoghi e di chi questo Paese l'ha scelto dopo essere stato in altri luoghi.

Raccomandazioni: attenzione agli spazzolini da denti! Possono essere armi di (auto)distruzione di massa, che possono mettere a rischio un viaggio se non usati con cautela.

Sarà per questo che alla fine del viaggio io pensavo al mio spazzolino elettrico restato a casa.

3 commenti:

Valeria ha detto...

Grazie del bel resoconto Serené, è stato bello rileggere il viaggio con le tue parole. Grazie anche di aver accettato di buon grado di venire all'Hammam. Le tue considerazioni sul prendersi cura degli altri, in tutta la sua fisica, splendida e ingombrante dimensione, mi hanno fatto pensare molto.
Al prossimo viaggio o pezzo di strada insieme!

Anonimo ha detto...

bello!... il tuo racconto mi a fatto pensare e immaginare... e "hobbit pallido" mi ha fatto sbellicare!!!
bacione
Debora

Anonimo ha detto...

Ehi, anche io ho lasciato a casa il mio nuovo spazzolino da denti e mi è mancato! ;)
In compenso Vale mi ha fatto un regalo e tornato dal Rototom ho trovato il succo di limone nel frigo! :)
Youssef

Posta un commento

 

Copyright © 2010 Le parole dell'Assurda | Premium Blogger Templates & Photography Logos | PSD Design by Amuki